sabato 26 luglio 2008

Moralismo bigotto ed umiltà: c'è una terza via?

Sono piuttosto combattuto, ultimamente, nel cercare di separare due miei stati d'animo molto diversi: da una parte la tendenza naturale a dare giudizi e dall'altra quella umana dell'avere pietà delle nostre debolezze.

Quando sento parlare di coetanei (maschi o femmine indifferentemente) che vivono gli inizi della loro maturità delegando sempre il "massimo del divertimento" ai festini alcolici fino alle 7 del mattino scopando chi capita; quando vado in palestra e trovo il solito stereotipo del palestrato gonfio di proteine e creatina che parla solo di sesso, di calcio e di motori; quando parlo con persone che hanno una laurea e vedo nel loro sguardo l'astronauta spaziale che galleggia nel vuoto cosmico del loro cervello; quando avverto nelle parole della gente comune quel senso fortissimo di provincialismo e di superficialità borghese che faceva inorridire già 40 anni fa; quando sento parlare di Amici ed iniziare un dibattito attorno a nonsochi su nonsocosa di inutile sia capitato; quando qualcuno comincia sempre le sue frasi con "l'altro giorno alla televisione..."; e ancora: quando trovo quello che si lamenta del troppo lavoro e stacca dopo 6 ore (annessa pausa pranzo); quando sento quello o quella parlare del fatto che non hanno soldi salvo poco dopo sfoggiare il loro ultimo costosissimo acquisto; ebbene, ogni volta che cose come queste accadono mi sento punto da una irrefrenabile voglia di giudicare che farebbe di me il più bigotto, superficiale e disumano essere di questo terra.

Sono davvero molto combattuto nel bloccare sul nascere certi pensieri da puritano incallito. Giudicare. Quanto odio giudicare! Una pratica di cui abusiamo ogni giorno. Negli ultimi 10 anni ho cominciato una sempre più convinta battaglia per sradicare da me ogni possibile pregiudizio. Purtroppo, nel catechismo che ho frequentato fino ai 20 anni ho trovato solo come unico modello la creazione di un Noi ed un Loro, una mentalità dove le cause profonde di certi eventi vengono viste partendo dal presupposto che ci sia un Giusto Assoluto ed uno Sbagliato che va sempre male, qualsiasi sia il periodo, la persona, l'oggetto della questione. Così come nelle storie di famiglia, in quelle raccontate, in quelle riportate dagli amici, trovo spesso che il punto di vista del narratore sia sempre troppo soggettivo, a volte sapendo di esserlo.
Forse contagiato da certi concetti chiave della Biologia, negli ultimi anni ho dato più spazio a concetti di relatività del punto di vista dell'osservatore, di verità supposte tali (fino a quando altre verità le soppiantano), di unicità del fatto che può però essere spiegato e visto in mille modi diversi, magari tutti giusti (ma con la g minuscola). Ho dovuto accettare il fatto che il valore delle cose è dato quasi totalmente dal contesto in cui nasce. E che il non-detto è la chiave per capire il detto. Mi sono un po' dovuto arrendere a quella domanda che ogni estate, quando andavo a Caltabellotta (provincia di Agrigento) al paese di mio padre, certi paesani mi facevano non riconoscendomi dall'anno precedente: "Di cu si figghiu?". Ovvero, in questo caso: cosa ti ha portato a fare quello che fai? Da dove arrivi per credere che quello che fai sia il modo giusto per ottenere quello che vuoi?

Mi rendo conto che vivere comporta anche il dare un giudizio alle cose, per trarre valore dalle nostre esperienze; non sono mica cretino. Sarebbe davvero qualunquistico ed ugualmente superficiale non voler fermare, in una affermazione, alcun concetto. Ma quello di cui sono sempre più convinto è che non essendo Dio, il mio giudizio non può che essere parziale e relativo al mio punto di vista. Proprio per questo dovrei essere sempre pronto, se si creano le condizioni adatte, a cambiare quella conclusione o quella affermazione forte. Perchè non posso negare che la persona che ho davanti e che compie un atto che io non ritengo moralmente accettabile potrei essere io, in un altro momento della mia vita. C'è una canzone di Lorenzo Cherubini (in arte Jovanotti) che si chiama Noi e spiega benissimo questo concetto, chiedendo durante tutta la canzone "Chi sono?" tutta una serie di persone e situazioni diverse che incontriamo nella nostra vita, domanda a cui risponde sempre: "Siamo noi".

Il pazzo che accoltella un tizio per strada per una lite banale, potrei essere io. Il suicida che non crede più in nulla, potrei essere io. Quello che tradisce la moglie, potrei essere io. Quello che se ne frega del figlio, potrei essere io. Quello che prega alla domenica ma che darebbe fuoco al senegalese per le vie del centro, potrei essere io. Farsi una canna a 45 anni non è immorale a priori. Direi neanche farsi di cocaina. Come posso io giudicare la vita di uno zingaro una vita inutile? Cosa cambia la morte o la sopravvivenza di un anziano solo di 95 anni, senza alcun parente che lo vada a trovare?
Io, in quanto umano, non sono in grado di sentenziare alcunchè e l'unica cosa che mi è ovviamente concessa è quella di garantire a tutti una società equa (cioè se ammazzi vai in galera, a prescindere dalle motivazioni che ti hanno portato fino a lì).

Mi chiedo cioè se non sia più opportuno, per imparare dagli altri e vivere meglio, chiedere sempre a chi ci sta davanti prima di ogni discussione: "Dammi le tue riflessioni, risparmiami i tuoi giudizi".

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